Segnalo un articolo del Corsera che ipotizza una soluzione per uno dei problemi ambientali più rilevanti. Può sembrare un po' troppo fantasiosa, ma mi sembra molto più concreta dei modesti piani di riduzione delle emissioni attualmente programmati.
La «terra nera» degli indios, un’antica pratica precolombiana, riproposta in chiave moderna potrebbe "assimilare" l'anidride carbonica e risolvere il problema dell'effetto serra. Ci stanno lavorando in diversi centri di ricerca scientifica in tutto il mondo. In Italia se ne occupa l’Istituto di biometeorologia del CNR (Ibimet) di Firenze, dove un’equipe di studiosi coordinata dal dottor Franco Miglietta ha ottenuto già risultati molto incoraggianti.
Anni fa in Brasile si è scoperta l'esistenza di terreni con un alto contenuto di materiale carbonioso, fino a 70 volte di più dei suoli circostanti: scaglie scure e friabili, simili alla carbonella che si adopera per accendere i barbecue. «Sembra che questo carbone sia stato prodotto dalla combustione incompleta di parti vegetali introdotte volontariamente nel terreno dalle popolazioni locali, nel corso di migliaia di anni. Insomma, in alternativa al "taglia e brucia", si praticava il "taglia e carbonifica" a scopo di fertilizzazione», spiega Miglietta. Approfondendo la questione si è verificato che la pratica agricola applicata dagli indios della regione amazzonica, oltre a rendere i terreni più fertili, se applicata su vasta scala rimuoverebbe una grande quantità di CO2 dall'atmosfera, riducendo l'effetto serra. «Le piante - ricorda Miglietta - assorbono CO2 dall'atmosfera, per poi rilasciarla quando terminano il loro ciclo di vita. Invece, interrandole, la CO2 viene trattenuta nel terreno per migliaia di anni e così si possono ridurre le emissioni di questo inquinante nell'atmosfera».
La "terra preta de los indios" (la terra nera degli indio) oggi viene chiamata "biochar". Il progetto dell’Ibimet si chiama ITABI (Italian Biochar iniziative), con verifiche sperimentali su alcuni terreni della Toscana: aggiungendo 10 tonnellate per ettaro di biochar, si sottraggono all’atmosfera 30 tonnellate di CO2, aumentando nello stesso tempo la produzione di frumento duro del 15%. «Ma, oltre al sequestro della CO2, i vantaggi sono molteplici - sottolinea Miglietta - Immettere biochar nel terreno significa innanzitutto sbarazzarsi di residui organici di origine agricola o alimentare che oggi vengono bruciati; poi ridurre l’uso di fertilizzanti; e ancora generare energia grazie ai gas che vengono liberati nel corso della carbonizzazione del biochar interrato».
Da profano mi chiedo se, a lungo termine, sotterrare la CO2 non abbia effetti collaterali o non porti poi a costi insostenibili per carenza di spazi a modesta profondità, o non ci sia il rischio in futuro di dover "dissotterrare" in blocco quantità enormi di CO2. Ma di fronte al problema dell'effetto serra e alla risposta insufficiente data finora dai governi, mi sembra comunque l'uovo di colombo, tanto più che, in un'intervista pubblicata dal sito energiaspiegata.it, Miglietta dichiara che "aggiungendo soli 700 Kg di Carbonio all’anno per ogni ettaro di terra coltivata, si potrebbero ridurre le emissioni di CO2 italiane di 45 milioni di tonnellate di CO2 annue, molto di più di quanto ci chieda il Protocollo di Kyoto"
Il biochar può essere ottenuto a partire da numerosi tipi di residui: scarti di potatura e lavorazione del legno, stocchi di mais, paglia, gusci di noce, pula di riso, ma anche da biomasse appositamente coltivate. Il processo di carbonizzazione si realizza accatastando i residui, ricoprendoli di terra e avviando una lenta combustione in assenza di ossigeno, a temperature di poco superiori a 300 gradi, secondo una tecnica di decomposizione termochimica chiamata pirolisi. Negli ultimi mesi le pubblicazioni relative al biochar si sono moltiplicate e l’argomento è diventato oggetto di confronto nel corso delle conferenze scientifiche sulla mitigazione dell’effetto serra. Secondo alcuni studiosi, la produzione su larga scala del biochar sarebbe molto più economica e vantaggiosa della sequestrazione geologica della CO2 prodotta dagli impianti energetici.
La «terra nera» degli indios, un’antica pratica precolombiana, riproposta in chiave moderna potrebbe "assimilare" l'anidride carbonica e risolvere il problema dell'effetto serra. Ci stanno lavorando in diversi centri di ricerca scientifica in tutto il mondo. In Italia se ne occupa l’Istituto di biometeorologia del CNR (Ibimet) di Firenze, dove un’equipe di studiosi coordinata dal dottor Franco Miglietta ha ottenuto già risultati molto incoraggianti.
Anni fa in Brasile si è scoperta l'esistenza di terreni con un alto contenuto di materiale carbonioso, fino a 70 volte di più dei suoli circostanti: scaglie scure e friabili, simili alla carbonella che si adopera per accendere i barbecue. «Sembra che questo carbone sia stato prodotto dalla combustione incompleta di parti vegetali introdotte volontariamente nel terreno dalle popolazioni locali, nel corso di migliaia di anni. Insomma, in alternativa al "taglia e brucia", si praticava il "taglia e carbonifica" a scopo di fertilizzazione», spiega Miglietta. Approfondendo la questione si è verificato che la pratica agricola applicata dagli indios della regione amazzonica, oltre a rendere i terreni più fertili, se applicata su vasta scala rimuoverebbe una grande quantità di CO2 dall'atmosfera, riducendo l'effetto serra. «Le piante - ricorda Miglietta - assorbono CO2 dall'atmosfera, per poi rilasciarla quando terminano il loro ciclo di vita. Invece, interrandole, la CO2 viene trattenuta nel terreno per migliaia di anni e così si possono ridurre le emissioni di questo inquinante nell'atmosfera».
La "terra preta de los indios" (la terra nera degli indio) oggi viene chiamata "biochar". Il progetto dell’Ibimet si chiama ITABI (Italian Biochar iniziative), con verifiche sperimentali su alcuni terreni della Toscana: aggiungendo 10 tonnellate per ettaro di biochar, si sottraggono all’atmosfera 30 tonnellate di CO2, aumentando nello stesso tempo la produzione di frumento duro del 15%. «Ma, oltre al sequestro della CO2, i vantaggi sono molteplici - sottolinea Miglietta - Immettere biochar nel terreno significa innanzitutto sbarazzarsi di residui organici di origine agricola o alimentare che oggi vengono bruciati; poi ridurre l’uso di fertilizzanti; e ancora generare energia grazie ai gas che vengono liberati nel corso della carbonizzazione del biochar interrato».
Da profano mi chiedo se, a lungo termine, sotterrare la CO2 non abbia effetti collaterali o non porti poi a costi insostenibili per carenza di spazi a modesta profondità, o non ci sia il rischio in futuro di dover "dissotterrare" in blocco quantità enormi di CO2. Ma di fronte al problema dell'effetto serra e alla risposta insufficiente data finora dai governi, mi sembra comunque l'uovo di colombo, tanto più che, in un'intervista pubblicata dal sito energiaspiegata.it, Miglietta dichiara che "aggiungendo soli 700 Kg di Carbonio all’anno per ogni ettaro di terra coltivata, si potrebbero ridurre le emissioni di CO2 italiane di 45 milioni di tonnellate di CO2 annue, molto di più di quanto ci chieda il Protocollo di Kyoto"
Il biochar può essere ottenuto a partire da numerosi tipi di residui: scarti di potatura e lavorazione del legno, stocchi di mais, paglia, gusci di noce, pula di riso, ma anche da biomasse appositamente coltivate. Il processo di carbonizzazione si realizza accatastando i residui, ricoprendoli di terra e avviando una lenta combustione in assenza di ossigeno, a temperature di poco superiori a 300 gradi, secondo una tecnica di decomposizione termochimica chiamata pirolisi. Negli ultimi mesi le pubblicazioni relative al biochar si sono moltiplicate e l’argomento è diventato oggetto di confronto nel corso delle conferenze scientifiche sulla mitigazione dell’effetto serra. Secondo alcuni studiosi, la produzione su larga scala del biochar sarebbe molto più economica e vantaggiosa della sequestrazione geologica della CO2 prodotta dagli impianti energetici.
Massimo
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