Il 16 marzo 1978 a Roma veniva rapito dalle Brigate Rosse, al termine di un agguato costato la vita a 5 uomini della scorta, il presidente della DC Aldo Moro, trovato morto 54 giorni dopo. Una vicenda che segnò in modo profondo la storia della Repubblica italiana, e sancì in qualche modo l'inizio della fine delle BR. Ancora oggi restano diversi punti irrisolti nella vicenda, a cominciare dalla mancata individuazione del luogo dove era tenuto ostaggio Aldo Moro, "colpevole" di aver determinato il compromesso storico fra democristiani e comunisti. Le BR chiedevano la liberazione di alcuni loro membri, in quel periodo in carcere a Torino.
Circa la mancata liberazione ci sono forti sospetti sulle responsabilità dello Stato, in particolare della sfera politica e dei servizi segreti, non solo per la rigida linea che si opponeva fermamente a qualsiasi trattativa con i terroristi. Lo stesso Aldo Moro nelle lettere scritte durante la reclusione citava responsabilità da parte della DC. Le 30 lettere dello statista rese pubbliche dalle BR furono riportate e commentate da Leonardo Sciascia nel libro "L'affaire Moro". Altre 50 lettere vennero ritrovare molti anni dopo.
Esistono anche ipotesi relative al coinvolgimento della criminalità organizzata. Secondo le dichiarazioni di alcuni pentiti di mafia, durante il sequestro Moro ci furono vani tentativi da parte di “settori delle istituzioni” – in particolare servizi segreti ed esponenti di partito – di coinvolgere mafia, camorra e ‘ndrangheta perché raccogliessero informazioni sulla prigione di Moro (attraverso il loro “controllo del territorio”, che evidentemente era o si riteneva più efficace di quello esercitato dallo Stato) o per sondare i brigatisti detenuti nelle carceri. Il pentito di mafia Tommaso Buscetta ha anche riferito che il suo capomafia Stefano Bontate fu invitato da Pippo Calò a non darsi più da fare perché all’interno del suo partito (la Dc) non c’era più la volontà di liberare Moro. Molti elementi interessanti sono stati riportati in questi giorni dal giornalista Giovanni Bianconi sul sito del Corriere della Sera.
Aldilà dell'affidabilità delle dichiarazioni dei pentiti, diversi elementi fanno pensare che lo Stato abbia avuto "soffiate" e indizi sufficienti per arrivare al covo, e che non si sia arrivati a salvare lo statista per precisa volontà politica.
Fra le varie teorie, una, narrata nel film "Piazza delle Cinque Lune", individua nei servizi segreti e prima ancora negli Stati Uniti gli organizzatori e i finanziatori di diversi movimenti sovversivi di estrema sinistra in Europa, tra cui le RAS (Germania) e appunto le Brigate Rosse, con lo scopo di conservare gli equilibri della conferenza di Yalta, tenere i partiti comunisti lontani da posizioni di governo nei Paesi occidentali, mantenere una clima di tensione e la guerra fredda tra i due "blocchi".
Circa la mancata liberazione ci sono forti sospetti sulle responsabilità dello Stato, in particolare della sfera politica e dei servizi segreti, non solo per la rigida linea che si opponeva fermamente a qualsiasi trattativa con i terroristi. Lo stesso Aldo Moro nelle lettere scritte durante la reclusione citava responsabilità da parte della DC. Le 30 lettere dello statista rese pubbliche dalle BR furono riportate e commentate da Leonardo Sciascia nel libro "L'affaire Moro". Altre 50 lettere vennero ritrovare molti anni dopo.
Esistono anche ipotesi relative al coinvolgimento della criminalità organizzata. Secondo le dichiarazioni di alcuni pentiti di mafia, durante il sequestro Moro ci furono vani tentativi da parte di “settori delle istituzioni” – in particolare servizi segreti ed esponenti di partito – di coinvolgere mafia, camorra e ‘ndrangheta perché raccogliessero informazioni sulla prigione di Moro (attraverso il loro “controllo del territorio”, che evidentemente era o si riteneva più efficace di quello esercitato dallo Stato) o per sondare i brigatisti detenuti nelle carceri. Il pentito di mafia Tommaso Buscetta ha anche riferito che il suo capomafia Stefano Bontate fu invitato da Pippo Calò a non darsi più da fare perché all’interno del suo partito (la Dc) non c’era più la volontà di liberare Moro. Molti elementi interessanti sono stati riportati in questi giorni dal giornalista Giovanni Bianconi sul sito del Corriere della Sera.
Aldilà dell'affidabilità delle dichiarazioni dei pentiti, diversi elementi fanno pensare che lo Stato abbia avuto "soffiate" e indizi sufficienti per arrivare al covo, e che non si sia arrivati a salvare lo statista per precisa volontà politica.
Fra le varie teorie, una, narrata nel film "Piazza delle Cinque Lune", individua nei servizi segreti e prima ancora negli Stati Uniti gli organizzatori e i finanziatori di diversi movimenti sovversivi di estrema sinistra in Europa, tra cui le RAS (Germania) e appunto le Brigate Rosse, con lo scopo di conservare gli equilibri della conferenza di Yalta, tenere i partiti comunisti lontani da posizioni di governo nei Paesi occidentali, mantenere una clima di tensione e la guerra fredda tra i due "blocchi".
Alle 9,04 in via Mario Fani, quattro tutori dell'ordine cadono uccisi a colpi di mitra, un quinto è mortalmente ferito; il presidente della DC, Aldo Moro viene, sequestrato.
Il leader della DC, come tutte le mattine, era uscito di casa in via del Forte Trionfale 79, a bordo della Fiat 130 blu, targata Roma L59812, che nel quartiere percorreva metodicamente lo stesso percorso alle stesse ore da molti anni.
Moro si stava recando alla Camera dei deputati per ascoltare il discorso programmatico del nuovo Governo Andreotti, del quale è stato, nelle settimane precedenti, il più attivo ispiratore. Alla guida il carabiniere Domenico Ricci, l'autista di fiducia, al suo fianco Oreste Leonardi, da quindici anni 'al servizio' del presidente della DC. Dietro la 130, l'Alfetta bianca della scorta d'ufficio, con tre guardie di PS: Giulio Rivera, Francesco Zizzi, Raffaele Iozzino. Avevano appena accompagnato Moro nella consueta visita mattutina in chiesa.
Davanti al piccolo corteo delle auto si inserisce una 128 familiare bianca, targata CD 19707, con due uomini a bordo, di cui si saprà più tardi che la targa è stata rubata cinque anni prima. Nella 130 Moro sfoglia il pacco dei giornali.
Via Trionfale, Via Mario Fani: tutto finora è tranquillo. Sull'incrocio con via Stresa si nota solo l'assenza di un fioraio che da due anni in quel punto vende i suoi fiori; successivamente si saprà che quella mattina non è andato a lavorare perché, uscito di casa, ha trovato bucate tutte e quattro le gomme della sua automobile, proprio a quella altezza la 128 frena di colpo... . Sulla riga bianca dello stop all'incrocio con via Stresa, l'auto di Moro la tampona leggermente e a sua volta viene tamponata dall'Alfetta di scorta. Sbucano quattro persone in divisa blu che imbracciando i mitra, aprono il fuoco: sotto oltre settanta colpi delle sventagliate dei mitra cadono Leonardo e Ricci. Fulminati anche gli uomini dell'Alfetta. Solo Iozzino riesce a uscire dalla macchina e a sparare alcuni colpi prima di cadere a terra centrato dai terroristi. I due uomini della 128 spalancano lo sportello e trascinano Moro verso la 132 scura, che nel frattempo è arrivata alle spalle delle tre macchine, e che parte a tutta velocità in direzione di Via Stresa, seguita da un'altra 128 e da una moto di grossa cilindrata. Non è trascorso neanche un minuto che una telefonata anonima giunge al 113: "Qui in via Fani, stanno sparando"
9.09: giungono le prime pantere. Tre minuti dopo la polizia istituisce i primi posti di blocco nelle immediate vicinanze dell'agguato (in piazza Medaglie d'oro, via Trionfale, via della Camilluccia, via della Balduina). Nella zona nel frattempo si verifica un black-out telefonico: in un primo tempo i tecnici della Sip lo attribuiranno ad un eccesso di telefonate dopo l'attentato; successivamente, invece, confermeranno l'ipotesi di un sabotaggio accuratamente predisposto dai brigatisti.
Il leader della DC, come tutte le mattine, era uscito di casa in via del Forte Trionfale 79, a bordo della Fiat 130 blu, targata Roma L59812, che nel quartiere percorreva metodicamente lo stesso percorso alle stesse ore da molti anni.
Moro si stava recando alla Camera dei deputati per ascoltare il discorso programmatico del nuovo Governo Andreotti, del quale è stato, nelle settimane precedenti, il più attivo ispiratore. Alla guida il carabiniere Domenico Ricci, l'autista di fiducia, al suo fianco Oreste Leonardi, da quindici anni 'al servizio' del presidente della DC. Dietro la 130, l'Alfetta bianca della scorta d'ufficio, con tre guardie di PS: Giulio Rivera, Francesco Zizzi, Raffaele Iozzino. Avevano appena accompagnato Moro nella consueta visita mattutina in chiesa.
Davanti al piccolo corteo delle auto si inserisce una 128 familiare bianca, targata CD 19707, con due uomini a bordo, di cui si saprà più tardi che la targa è stata rubata cinque anni prima. Nella 130 Moro sfoglia il pacco dei giornali.
Via Trionfale, Via Mario Fani: tutto finora è tranquillo. Sull'incrocio con via Stresa si nota solo l'assenza di un fioraio che da due anni in quel punto vende i suoi fiori; successivamente si saprà che quella mattina non è andato a lavorare perché, uscito di casa, ha trovato bucate tutte e quattro le gomme della sua automobile, proprio a quella altezza la 128 frena di colpo... . Sulla riga bianca dello stop all'incrocio con via Stresa, l'auto di Moro la tampona leggermente e a sua volta viene tamponata dall'Alfetta di scorta. Sbucano quattro persone in divisa blu che imbracciando i mitra, aprono il fuoco: sotto oltre settanta colpi delle sventagliate dei mitra cadono Leonardo e Ricci. Fulminati anche gli uomini dell'Alfetta. Solo Iozzino riesce a uscire dalla macchina e a sparare alcuni colpi prima di cadere a terra centrato dai terroristi. I due uomini della 128 spalancano lo sportello e trascinano Moro verso la 132 scura, che nel frattempo è arrivata alle spalle delle tre macchine, e che parte a tutta velocità in direzione di Via Stresa, seguita da un'altra 128 e da una moto di grossa cilindrata. Non è trascorso neanche un minuto che una telefonata anonima giunge al 113: "Qui in via Fani, stanno sparando"
9.09: giungono le prime pantere. Tre minuti dopo la polizia istituisce i primi posti di blocco nelle immediate vicinanze dell'agguato (in piazza Medaglie d'oro, via Trionfale, via della Camilluccia, via della Balduina). Nella zona nel frattempo si verifica un black-out telefonico: in un primo tempo i tecnici della Sip lo attribuiranno ad un eccesso di telefonate dopo l'attentato; successivamente, invece, confermeranno l'ipotesi di un sabotaggio accuratamente predisposto dai brigatisti.
Infine, da Repubblica.it, la cronaca dei 55 giorni del sequestro:
16 marzo, ore 9.15. In via Mario Fani i brigatisti rossi rapiscono il presidente della Dc Aldo Moro. Poche ore dopo Moro avrebbe dovuto partecipare, a Montecitorio, al dibattito sulla fiducia al quarto governo Andreotti. Nell'agguato vengono uccisi i carabinieri Domenico Ricci e Oreste Leonardi e i tre poliziotti dell'auto di scorta Raffaele Jozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi.
16 marzo, ore 10. Le Brigate rosse telefonano all'Ansa e comunicano di aver rapito il presidente della Dc.
16 marzo, ore 10. Il preidente della Camera Pietro Ingrao sospende la seduta e anuncia il rapimento di Aldo Moro.
16 marzo, ore 11. Cgil, Cisl e Uil proclamano lo sciopero generale.
18 marzo. Dopo i funerali degli uomini della scorta di Moro, alle 12 le Brigate rosse telefonano al quotidiano romano "Il Messaggero" e indicano una cabina telefonica in cui viene trovato il "Comunicato n.1" con la fotografia del presidente della Dc. Le Brigate rosse comunicano che Moro è in una "prigione del popolo" in quanto reponsabile "dei programmi controrivoluzionari della borghesia imperialista".
19 marzo. Dalla finestra del suo studio Paolo VI lancia il primo appello ai rapitori di Moro.
20 marzo. A Torino, durante il processo a Renato Curcio, le Brigate rosse rivendicano la responsabilità politica del rapimento.
21 marzo. Il governo approva il decreto antiterrorismo: trent'anni di carcere per i terroristi, ergastolo in caso di morte dell'ostaggio; la polizia può fermare, interrogare e ascoltare le telefonate sospette.
23 marzo. Il Pci comunica la sua posizione ufficiale: lo Stato non deve trattare con le Brigate rosse.
25 marzo. A Torino, Roma, Milano e Genova le Brigate rosse fanno trovare il "Comunicato n.2", in cui annunciano di aver cominciato il "processo popolare" contro Moro.
29 marzo. "Sono sotto un dominio pieno e incontrollato dei terroristi". Le Br fanno trovare il "Comunicato n.3": una lettera al ministro degli Interni Francesco Cossiga in cui Moro accenna alla possibilità di uno scambio.
30 marzo. La direzione della Democrazia cristiana decide di respingere ogni trattativa. Comincia la "linea dura". Alcuni giorni dopo la stessa decisione verrà confermata dai cinque partiti della maggioranza.
2 aprile. Paolo VI, durante l'Angelus, rivolge il secondo appello alle Brigate rosse.
4 aprile. Il "Comunicato n.4" delle Brigate rosse è una copia della lettera di Moro al segretario della Dc Benigno Zaccagnini: "Moralmente sei tu ad essere al mio posto, dove materialmente sono io".
7 aprile. Il quotidiano milanese "Il Giorno" pubblica una lettera di Eleonora Moro: la moglie del presidente della Dc si dissocia dalla "linea dura" e dice di voler adottare una linea di comportamento autonoma.
10 aprile. "Comunicato n.5": una lettera autografa di Aldo Moro, in cui il presidente Dc sostiene l'ipotesi delle trattative e attacca il suo compagno di partito Taviani.
15 aprile. Il "Comunicato n.6" annuncia la fine del "processo popolare" ad Aldo Moro e decreta la sua condanna a morte.
17 aprile. Amnesty International si offre come mediatore, e il segretario dell'Onu Kurt Waldheim lancia il suo primo appello.
18 aprile. In via Gradoli 94, a Roma, viene scoperto un covo delle Brigate rosse. Un comunicato, il n.7, che poi si rivelerà falso, annuncia che Moro è stato ucciso: il suo corpo si troverebbe nel lago della Duchessa.
20 aprile. Alla redazione di "Repubblica" arriva il vero "Comunicato n.7": Moro è fotografato con una copia del quotidano del 19 aprile. E' il comunicato dell'ultimatum: "Scambio di prigionieri o lo uccidiamo". Lo stesso giorno Moro scrive a Zaccagnini, e lo rimprovera per la sua intransigenza.
21 aprile. La direzione della Dc ribadisce la "linea dura", ma la famiglia di Moro chiede di accettare le condizioni della Br. La direzione del Psi rompe ogni indugio e si dichiara favorevole alle trattative.
22 aprile. Paolo VI lancia il suo terzo mesaggio: "Io scrivo a voi, uomini delle Brigate rosse...". Anche il seretario dell'Onu Waldheim rivolge il secondo appello alle Br.
24 aprile. Il "Comunicato n.8" detta le condizioni per la liberazione di Aldo Moro: la liberazione di tredici brigatisti detenuti, tra cui Renato Curcio.
29 aprile. Moro scrive alla Democrazia cristiana: "Lo scambio è la sola via d'uscita".
30 aprile. Moro scrive a Giovanni Leone, ad Amintore Fanfani, a Pietro Ingrao e a Bettino Craxi. Alle 16.30 un brigatista telefona a casa della famiglia Moro: per salvare la vita al presidente della Dc serve un immediato intervento di Zaccagnini.
5 maggio. Andreotti ribadisce il "no" alle trattative. Poche ore dopo, nel "Comunicato n.9", la Brigate rosse scrivono: "Concludiamo la battaglia cominciata il 16 marzo eseguendo la sentenza a cui Aldo Moro è stato condannato".
7 maggio. Viene pubblicata la lettera di Aldo Moro alla moglie: "Cara Norina, ti bacio per l'ultima volta".
8 maggio. L'ultima lettera di Moro alla famiglia.
9 maggio. Alle 13.30, in via Caetani, quasi a metà strada tra i palazzi del Pci e della Dc, in una Reanault R4 rossa viene trovato il cadavere di Aldo Moro. L'autopsia stabilirà che il presidente della Dc è stato ucciso tra le 6 e le 7 del mattino.
16 marzo, ore 10. Le Brigate rosse telefonano all'Ansa e comunicano di aver rapito il presidente della Dc.
16 marzo, ore 10. Il preidente della Camera Pietro Ingrao sospende la seduta e anuncia il rapimento di Aldo Moro.
16 marzo, ore 11. Cgil, Cisl e Uil proclamano lo sciopero generale.
18 marzo. Dopo i funerali degli uomini della scorta di Moro, alle 12 le Brigate rosse telefonano al quotidiano romano "Il Messaggero" e indicano una cabina telefonica in cui viene trovato il "Comunicato n.1" con la fotografia del presidente della Dc. Le Brigate rosse comunicano che Moro è in una "prigione del popolo" in quanto reponsabile "dei programmi controrivoluzionari della borghesia imperialista".
19 marzo. Dalla finestra del suo studio Paolo VI lancia il primo appello ai rapitori di Moro.
20 marzo. A Torino, durante il processo a Renato Curcio, le Brigate rosse rivendicano la responsabilità politica del rapimento.
21 marzo. Il governo approva il decreto antiterrorismo: trent'anni di carcere per i terroristi, ergastolo in caso di morte dell'ostaggio; la polizia può fermare, interrogare e ascoltare le telefonate sospette.
23 marzo. Il Pci comunica la sua posizione ufficiale: lo Stato non deve trattare con le Brigate rosse.
25 marzo. A Torino, Roma, Milano e Genova le Brigate rosse fanno trovare il "Comunicato n.2", in cui annunciano di aver cominciato il "processo popolare" contro Moro.
29 marzo. "Sono sotto un dominio pieno e incontrollato dei terroristi". Le Br fanno trovare il "Comunicato n.3": una lettera al ministro degli Interni Francesco Cossiga in cui Moro accenna alla possibilità di uno scambio.
30 marzo. La direzione della Democrazia cristiana decide di respingere ogni trattativa. Comincia la "linea dura". Alcuni giorni dopo la stessa decisione verrà confermata dai cinque partiti della maggioranza.
2 aprile. Paolo VI, durante l'Angelus, rivolge il secondo appello alle Brigate rosse.
4 aprile. Il "Comunicato n.4" delle Brigate rosse è una copia della lettera di Moro al segretario della Dc Benigno Zaccagnini: "Moralmente sei tu ad essere al mio posto, dove materialmente sono io".
7 aprile. Il quotidiano milanese "Il Giorno" pubblica una lettera di Eleonora Moro: la moglie del presidente della Dc si dissocia dalla "linea dura" e dice di voler adottare una linea di comportamento autonoma.
10 aprile. "Comunicato n.5": una lettera autografa di Aldo Moro, in cui il presidente Dc sostiene l'ipotesi delle trattative e attacca il suo compagno di partito Taviani.
15 aprile. Il "Comunicato n.6" annuncia la fine del "processo popolare" ad Aldo Moro e decreta la sua condanna a morte.
17 aprile. Amnesty International si offre come mediatore, e il segretario dell'Onu Kurt Waldheim lancia il suo primo appello.
18 aprile. In via Gradoli 94, a Roma, viene scoperto un covo delle Brigate rosse. Un comunicato, il n.7, che poi si rivelerà falso, annuncia che Moro è stato ucciso: il suo corpo si troverebbe nel lago della Duchessa.
20 aprile. Alla redazione di "Repubblica" arriva il vero "Comunicato n.7": Moro è fotografato con una copia del quotidano del 19 aprile. E' il comunicato dell'ultimatum: "Scambio di prigionieri o lo uccidiamo". Lo stesso giorno Moro scrive a Zaccagnini, e lo rimprovera per la sua intransigenza.
21 aprile. La direzione della Dc ribadisce la "linea dura", ma la famiglia di Moro chiede di accettare le condizioni della Br. La direzione del Psi rompe ogni indugio e si dichiara favorevole alle trattative.
22 aprile. Paolo VI lancia il suo terzo mesaggio: "Io scrivo a voi, uomini delle Brigate rosse...". Anche il seretario dell'Onu Waldheim rivolge il secondo appello alle Br.
24 aprile. Il "Comunicato n.8" detta le condizioni per la liberazione di Aldo Moro: la liberazione di tredici brigatisti detenuti, tra cui Renato Curcio.
29 aprile. Moro scrive alla Democrazia cristiana: "Lo scambio è la sola via d'uscita".
30 aprile. Moro scrive a Giovanni Leone, ad Amintore Fanfani, a Pietro Ingrao e a Bettino Craxi. Alle 16.30 un brigatista telefona a casa della famiglia Moro: per salvare la vita al presidente della Dc serve un immediato intervento di Zaccagnini.
5 maggio. Andreotti ribadisce il "no" alle trattative. Poche ore dopo, nel "Comunicato n.9", la Brigate rosse scrivono: "Concludiamo la battaglia cominciata il 16 marzo eseguendo la sentenza a cui Aldo Moro è stato condannato".
7 maggio. Viene pubblicata la lettera di Aldo Moro alla moglie: "Cara Norina, ti bacio per l'ultima volta".
8 maggio. L'ultima lettera di Moro alla famiglia.
9 maggio. Alle 13.30, in via Caetani, quasi a metà strada tra i palazzi del Pci e della Dc, in una Reanault R4 rossa viene trovato il cadavere di Aldo Moro. L'autopsia stabilirà che il presidente della Dc è stato ucciso tra le 6 e le 7 del mattino.
Massimo
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